Tocca risalire al nono secolo per trovare colui che si può definire l’inventore dell’algoritmo, tale al-Khwarizmi, un matematico arabo che prima di altri ebbe l’intuizione di studiare il procedimento giusto per giungere alla soluzione di un problema. Dal suo nome deriva il termine latino algorithmus, all’inizio utilizzato per indicare i calcoli con cifre arabe e successivamente per descrivere le applicazioni matematiche per l’elaborazione dei dati. Nessuna mente umana è capace di accumulare e manipolare una simile quantità di informazioni.
L’algoritmo è sempre presente, nonostante la sua invisibilità. È uno dei suoi punti di forza. Non lo vediamo ma lui vede noi e suggerisce cose che neppure gli vengono richieste. Una delle principali accuse nei suoi confronti è proprio quella di compiere scelte al posto degli esseri umani che non si rendono neppure conto di essere guidati in ogni loro azione. I campi nei quali viene utilizzato sono i più disparati. Il progresso si basa su una crescita aritmetica che garantisce funzionalità e velocità. E l’algoritmo, sempre e comunque, la fa da padrone. Non basta trincerarsi dietro frasi come ”è sempre l’uomo che lo ha inventato, e l’uomo lo utilizza secondo i propri scopi”. Una volta utilizzato l’algoritmo si impossessa di ogni cosa. Tutto quello che tocca diventa suo, e non si può più tornare indietro. I cosiddetti padroni della Rete lo hanno capito e si sono schierati dalla sua parte. Del resto, perché non approfittare e mettere mano su miliardi e miliardi di dati che corrispondono a miliardi e miliardi di persone?
Dobbiamo avere la consapevolezza che ogni nostro movimento sul Web viene archiviato, schedato e utilizzato dalle grandi aziende che hanno libero accesso ai nostri dati, e quindi hanno anche il monopolio sui computer del futuro e su tutte le macchine dotate di intelligenza artificiale. Il problema non è di facile soluzione. Siamo oramai abituati a rivolgerci a Internet per qualsiasi cosa. Forse si dovrebbe pensare a suddividere i server per bloccare questo monopolio, come suggerisce Evgeny Morozov[i]. Cioè, invece di distruggere quelli che definiamo i padroni del Web e di bloccare lo sviluppo delle macchine intelligenti, si potrebbe regolamentare l’uso dei dati, e far capire ai giganti digitali che non sono loro i proprietari di queste informazioni. Ma ci vuole una strategia industriale adeguata, sostenuta anche dalla politica.
Per quello che ci riguarda, dobbiamo ammettere che, dal momento in cui ci siamo consegnati senza riserve nelle mani delle big tech, veniamo sempre più orientati nelle nostre scelte. A loro volta, per soddisfare apparentemente tutti i nostri desideri, i colossi della tecnologia si sono impossessati anche dei nostri sogni.
[i] Francesca Bria, Evgeny Morozov, Ripensare le smart city, Codice Edizioni, Torino, 2018.
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