C’è voluto qualche giorno prima che mettessi giù queste due righe. Convinto da sempre che quando scompare qualcuno bisogna restare quanto più possibile in silenzio per il rispetto della persona e dei suoi familiari. Ogni parola potrebbe essere di troppo. Il silenzio, come scrive Erling Kagge, è uno spazio dell’anima. Il silenzio aiuta a osservare, ad ascoltare quei rumori di fondo del mondo e a cercare un po’ anche se stessi, tra pensieri e immagini che si mescolano tra passato e presente.
18 settembre 1993. Erano trascorsi appena due mesi dalla mia assunzione al Tg4, uno dei telegiornali dell’allora Fininvest. Ad Arcore c’era attesa per l’arrivo di Mikhail Gorbaciov. In quel periodo Silvio Berlusconi, come poi avrebbe rivelato qualche ora dopo allo stesso ospite, stava già mettendo a punto i dettagli per il suo ingresso in politica. Una decisione presa nei mesi in cui Mani Pulite stava colpendo uomini e partiti della Prima Repubblica. L’ex presidente russo e la moglie Raissa erano attesi per le 18. Emilio Fede, all’epoca il mio direttore, decise di farmi seguire l’evento e mi spedì ad Arcore. Ad accogliermi all’ingresso di villa San Martino c’era lui in persona, il Cavaliere. Fui preso da una forte emozione. Solo poche settimane prima mi occupavo di consigli comunali e provinciali, di questioni locali, di scaramucce politiche tra sindaci e assessori, viabilità cittadina, ordinanze municipali. Ora mi trovavo davanti a Sua Emittenza, l’imprenditore televisivo che aveva segnato la fine del monopolio della tv di Stato.
«Come sta Pascotto? Come va il nostro Tg4?». Risposi subito: «Bene, benissimo», senza nemmeno avere il tempo di riflettere su quello che mi stava accadendo. Ero a Milano da qualche settimana e il futuro presidente del Consiglio, che evidentemente si era informato, mi chiamava per nome. Mi prese sottobraccio, mi anticipò alcuni particolari su quello che, nei palazzi delle istituzioni, viene definito cerimoniale. La presenza di Gorbaciov ad Arcore era un momento importante. Tra una cosa e l’altra Silvio Berlusconi mi parlò del trucco della calza davanti all’obiettivo della telecamera. «Vede quelle imperfezioni?», disse indicandomi uno dei muri all’ingresso della villa. «La calza attutisce ogni difetto». Poi m’invitò a seguirlo per visitare la villa e il parco. Non potevo crederci. Silvio Berlusconi era il mio Cicerone e io, giovane e fortunato cronista, avrei anticipato di qualche ora il giro che poi avrebbero fatto Gorbaciov e Raissa.
Berlusconi mi portò nel suo ufficio, mi fece vedere alcuni trofei conquistati dal Milan. Ricordo come se fosse ieri la moquette rossa sul pavimento e il contrasto con il colore bianco della libreria, la stessa che in futuro avrebbe fatto da sfondo a tanti suoi videomessaggi. Accanto ai libri c’erano molte cornici con le foto dei figli, della moglie, dei genitori, e quelle con alcuni campioni dello sport. «É una bella giornata, approfittiamone», disse invitandomi a uscire per fare quattro passi nel parco. Nel giardino dove amava trascorrere quei pochi momenti di relax che i tanti impegni gli consentivano, mi raccontò di essere stato un allievo dei salesiani. Mi parlò dell’Istituto Sant’Ambrogio, a pochi passi dalla stazione centrale di Milano. Fu li che conobbe quello che sarebbe diventato il suo migliore amico, Fedele Confalonieri. Mi permisi di dire che ammiravo molto la figura di San Giovanni Bosco, comunemente chiamato Don Bosco, fondatore dei salesiani. Anche per una mia vecchia passione, i giochi di prestigio. E Don Bosco era noto per essere un amante degli spettacoli di magia. E aveva ben compreso l’enorme capacità comunicativa dell’arte della prestidigitazione. Non mi dilungai in questo discorso, per la paura di essere troppo superficiale e per non commettere errori. Ma lui sembrò apprezzare questo mio modo di ricordare colui che fu definito da Giovanni Paolo II “padre e maestro della gioventù”.
Mentre respiravamo l’odore dell’erba appena bagnata dall’acqua dell’impianto idrico, il mio sguardo fu catturato da un pavone e da un cerbiatto. «Fate vedere le immagini del parco – disse – ma attenzione ai tagli. Lasciatele scorrere qualche secondo in più. Voi della televisione siete abituati ai montaggi troppo veloci». Voi della televisione? Avevo capito bene? Il re dell’emittenza, il fondatore del grande network televisivo italiano, che diceva a me «voi della televisione». Mi diedi da solo qualche schiaffetto sulle guance per capire se fosse un sogno o se davvero mi trovavo in quel posto bellissimo accanto a Berlusconi.
La visita si concluse al mausoleo di famiglia realizzato dall’artista Pietro Cascella, un’opera d’arte che ha un nome, “La volta celeste”. Rappresenta il cielo, appunto. Scendemmo la scala che portava all’interno della struttura. Si aprì una porta scorrevole in pietra che portava in una stanza dove, attorno al bianco sarcofago, dove un giorno avrebbe riposato Berlusconi, c’erano una trentina di nicchie destinate ai familiari. Scherzò sulla eventualità di ospitare, in un lontano futuro, i suoi amici più cari. Anche qualche direttore di giornale e telegiornale. Poi Silvio Berlusconi si congedò. Doveva prepararsi ad accogliere l’ultimo presidente dell’Urss e la sua consorte. Mi rilassai su una delle poltrone del giardino dove di lì a poco sarebbero arrivati gli illustri ospiti. Seguii con scrupolo le sue indicazioni. E nei tg della sera andò in onda il servizio, il primo tra i tanti che avrei realizzato nel corso della carriera politica di Silvio Berlusconi.