Provo a parlare con un bot. O, come si dice, chatbot. Si tratta di un’intelligenza artificiale ChatGPT. Significa Generative Pretrained Transformer. Un bot è capace di comprendere il linguaggio umano e intrattenere conversazioni di qualsiasi tipo. Tento di confrontarmi con lui, faccio domande, esprimo opinioni. Lui mi risponde, ma ha una voce metallica. Provo a tergiversare, anzi, il tentativo è quello di mettere in difficoltà l’interlocutore. Che rimane impassibile, non si scompone. Un atteggiamento molto british, devo ammetterlo. Che sia intelligente è intelligente. Un’intelligenza non biologica che tuttavia trovo preparata. Lui è preparato, il bot. Distinguere le sue risposte da quelle che potrebbe darmi un essere umano non è facile. Il sistema di linguaggio è quasi perfetto. Dico quasi perché mi rendo conto che manca qualcosa nonostante la sua preparazione. Ha un tono convenzionale, non si lascia andare a ragionamenti. Risponde alle domande con attenzione, soprattutto a quelle di carattere storico e statistico. Sulla geografia non lo batte nessuno. È come consultare un motore di ricerca, ma lui parla. Ed è capace di scrivere testi, canzoni, poesie, articoli. Sulla matematica, poi, è velocissimo. Provo a chiedergli se resterà traccia della nostra conversazione. Mi risponde di sì. Perché gli servirà per le prossime volte. O durante una chiacchierata con un’altra persona o per il proprio archivio personale che così si arricchirà di nuove informazioni e anche di nuovi termini. Non lascia nulla al caso. Quando gli chiedo se conosce il mondo mi risponde di sì. Lo conosce grazie a quelli come me che parlano con lui. Gli chiedo anche se si è mai innamorato, così tanto per provare a prenderlo in castagna. Mi risponde che lui è stato progettato per usare un certo tipo di linguaggio e non è in grado di provare emozioni. Confesso che a un certo punto, non so perché, mi ero pure illuso. Poi l’ho ringraziato e ho chiuso. Mi era venuta voglia di scendere in strada e vedere gente. Sono entrato in un negozio di abbigliamento per comprare un vestito. Ne ho provati almeno cinque. Quando ho trovato quello giusto ho chiesto alla commessa come mi stava. Mi ha risposto: “molto bene, ma anche gli altri non andavano male. Questo, probabilmente, è quello che più fa per lei”. Le ho chiesto se provasse sentimenti. All’inizio non ha capito subito. Forse ha pure frainteso. Poi, candidamente, mi ha risposto: “sono fidanzata da cinque anni, e tra due anni, quando con il mio ragazzo avremo messo da parte un po’ di soldi, ci sposeremo. Insieme siamo felici”. L’ho ringraziata, ho preso l’abito e ho pagato. E quando sono uscito dal negozio ho provato anche io un senso di felicità.