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Il mondo accelera, tutto scorre veloce ma cerco di non lasciarmi prendere dai ritmi frenetici di una società in continuo movimento. Ad esempio, mi piacciono gli orologi ma non per il motivo per cui sono stati inventati. Mi piacciono gli orologi per l’esatto contrario. Mi piace guardarli, soffermarmi sui particolari, il colore del quadrante, la forma dei numeri e delle lancette, il riflesso del vetro sui muri, la grandezza, il tipo di cinturino utilizzato per questo o per quel modello. I motivi sono molteplici. Tanti, ma non quello per cui sono nati. Non mi interessano le lancette che scandiscono il palinsesto della giornata. Anzi. Mi soffermo a lungo su un orologio ed è come se si fermasse il tempo. Un paradosso, l’orologio che interrompe lo scorrere dei minuti e delle ore. Un orologio va ammirato e poi riposto con cura nella sua custodia, assieme agli altri orologi. E quando lo usi diventa monile adatto all’abito che si indossa. Cambio gli orologi a seconda di come sono vestito. Faccio le prove e se non sono convinto lo cambio e ne prendo un altro. È un esercizio per il quale si impiega del tempo, ma è come se il tempo non passasse mai. L’orologio diventa così dissacrante, filosofico, maestro. L’orologio come cuore pulsante segue i battiti delle lancette che inevitabilmente prima o poi tornano nello stesso punto. È forse per questo che per me quelle stesse lancette non segnano il tempo che passa ma il tempo che non passa mai. Ho un rapporto diverso da quello che hanno tutti. L’orologio non mi obbliga a fare presto, non mi costringe a seguire il ritmo assillante di chi deve fare tutto e subito. Con me l’orologio non si impone, resta lì al suo posto con discrezione, quasi ad augurarsi di essere sostituito con un altro modello il più tardi possibile. Lui sa che non sono schiavo del tempo. Forse è per questo che mi rispetta. E io ricambio la sua attenzione. Tranne al mattino, quando la prima cosa che faccio è vedere che ore sono.

NELL’IMMAGINE: Persistenza della memoria (Persistence of memory), Salvador Dalì, 1931. Acquistato dal  Museum of Modern Art di New york nel 1932

 

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