Fui catapultato a New York nei giorni immediatamente successivi all’attacco alle Torri Gemelle. L’attesa di 16 ore nell’aeroporto di Fiumicino, poi finalmente il volo Alitalia che ci portò nella città martoriata, da sempre al centro del mondo, ma in quel momento ancora di più. Ci sentivamo tutti cittadini della Grande Mela. Arrivai di notte, ma era come se fosse stato giorno. Il cielo era illuminato dalle fotoelettriche puntate su Ground Zero. Le sagome dei grattacieli, visti da lontano, sembravano la scenografia di un film. Imponenti e affascinanti allo stesso tempo, nonostante tutto.
Nella mente tornarono subito le immagini degli aerei che si erano andati a schiantare sulle Torri. L’11 settembre mi trovavo al largo del golfo di Napoli, a bordo della Nave Garibaldi. C’era un’esercitazione dei mezzi aerei e navali dell’Alleanza Nato. Dovevo realizzare uno speciale per Rete4. Poi, all’improvviso, ci dissero che dovevamo tornare a Capodichino. Con un elicottero fummo trasferiti in aeroporto nel giro di mezz’ora. Tornai in redazione, a Casoria, per montare quel servizio che poi non sarebbe mai più andato in onda. Mi chiamarono da Milano per dirmi di fermare tutto. Un aereo era precipitato su una delle Torri, al centro di Manhattan. Non era ancora chiaro se si trattava di un incidente o di un attentato. Poi, come tutti, mi resi conto che in diretta televisiva si stava consumando l’attacco che avrebbe cambiato il mondo, e che da quel momento ci avrebbe fatto sentire più deboli e indifesi. L’America era stata colpita al cuore, e con lei il resto del mondo.
Non vedevo l’ora di recarmi a Ground Zero. Ma l’intera area era blindatissima. Praticamente impossibile accedere ai varchi. Eppure, anche a distanza di due chilometri dal perimetro dell’attentato, si avvertiva in maniera distinta un’aria irrespirabile. Un odore mai sentito prima, difficile da dimenticare. Ero a pochi metri dal cratere, e solo allora mi resi effettivamente conto che quello era l’odore della morte, della distruzione. Si stava materializzando tutto quello che fino a quel momento avevo visto in televisione. E poi letto sui giornali. La prima cosa che feci fu quella di sentire i cittadini che abitavano a ridosso del World Trade Center. Raccolsi le testimonianze di chi aveva vissuto da vicino il crollo dei grattacieli simbolo di New York.
Tentai più volte di varcare l’area sorvegliata dai poliziotti che avevano il volto coperto da maschere antigas. Ci misi qualche giorno prima di potervi accedere. Grazie a un mio amico, responsabile dei servizi informatici della Msc, che aveva un ufficio in un grattacielo accanto alle Twin Towers, riuscì a vedere e filmare dall’alto quello che era rimasto dei simboli della città. Sotto di me l’inferno. Era un cratere di polvere, cemento e resti umani. I vigili del Fuoco scavavano tra le macerie giorno e notte. Tra le vittime c’erano anche molti colleghi. Avevano perso la vita nel tentativo di salvare quella di altre persone.
Ero stato al funerale collettivo di alcuni di loro, poco fuori Manhattan. Un funerale senza bare, perché i corpi non erano stati trovati. C’erano solo le foto per piangere e ricordarli. Alle vittime, ma anche a tutti quelli che ancora stavano scavando tra la polvere del World Trade Center, era dedicato un grande tabellone posto proprio all’ingresso di New York: Welcome to the city of heroes. Benvenuti nella città degli eroi. Sono trascorsi 20 anni, e ancora oggi il mio pensiero va alle vittime dell’attentato e a quegli eroi.