OVVERO, LO SPECCHIO, IL SELFIE E IL MONDO RIFLESSO
Il rapporto dell’individuo con lo specchio è ancestrale, fisico, indispensabile. Inizia dal mattino, quando ci vestiamo per uscire di casa. Abbiamo la necessità di vedere la nostra immagine, di cercare di capire come siamo fatti. E di verificare se è meglio presentarsi al resto del mondo in un modo o in un altro, indossando questo o quell’abito. Ne cambiamo anche più di uno prima di scegliere come andare al lavoro o come presentarsi ad un appuntamento.
Già i nostri antenati iniziarono a specchiarsi nei pozzi e nelle vasche d’acqua o sulle lastre di metallo. Ne avvertivano il bisogno, come succede a noi. Come successe agli egiziani, che per primi utilizzarono il bronzo come elemento riflettente. Per loro erano sacri, facevano parte dell’abbigliamento femminile nei riti religiosi. Avevano una forma circolare e simboleggiavano il sole. In epoca romana vennero utilizzati i primi specchi di vetro. Che nel corso dei secoli diventarono sempre più sofisticati, fino a utilizzare strati sottili di argento capaci di riflettere quasi fedelmente ogni figura.
Nella sua storia lo specchio ha prodotto effetti sociali di una certa importanza. Per esempio i grandi artisti li utilizzavano per verificare la fedeltà delle loro opere ed eventuali errori nella fase di realizzazione. Ma il ruolo dello specchio ha assunto un’importanza fondamentale nell’ambito cognitivo. Grazie a questo strumento possiamo cercare di capire come siamo fatti, possiamo osservare il nostro viso, il nostro corpo. Diventiamo visibili a noi stessi. Lo specchio esternalizza il corpo proiettandolo nel mondo come un doppio. La propria identità viene vissuta in maniera diversa. Lo specchio riflette non solo le persone ma anche le cose che lo circondano, fino a creare una specie di mondo parallelo. Dunque, l’esternalizzazione del corpo fa si che esso viva in un altro ambiente.
Con l’invenzione della fotografia l’uomo ha avuto la possibilità di possedere automaticamente le immagini di se stesso. Si passò dal riflesso della propria immagine, in tempo quasi reale, alla memorizzazione della stessa. Una prova concreta della propria esistenza. In realtà gli studi sulla fotografia, nel corso degli anni, hanno fornito interpretazioni diverse, sottolineando come l’immagine fotografica non rappresenti l’effettiva presenza umana bensì la nascita degli strumenti di duplicazione e registrazione.
Oggi il nostro specchio è il selfie. Abbiamo la necessità di autorappresentarci, essere in ogni luogo, alla ricerca di quella che in psicologia viene definita approvazione sociale. Ci mettiamo in bacheca, ci mostriamo, spesso anche in pose non proprio eleganti, per un like in più, un apprezzamento, un commento positivo. Il selfie, per il nostro io, è un metro di valutazione. Come dire: se ho molti mi piace significa che valgo. Il parere degli altri come linfa vitale. Non è negativo, ma se diventa ossessivo allora bisognerebbe mettere un freno. Il selfie ci rassicura, ci mette in qualche modo al riparo se gradito. Viceversa, ci provoca agitazione se non lo guarda nessuno o lo vedono in pochi. E diventiamo più tristi. Ci sforziamo di piacere, ma non deve essere per forza così. Non dobbiamo essere simpatici a tutti i costi. Anzi, deve essere chiaro che ognuno di noi è diverso dagli altri, con le proprie idee, convinzioni, opinioni, scelte politiche. Fosse vero il contrario allora diventerebbe molto pericoloso.
Per scattarci da soli la fotina da pubblicare sui social le braccia si sono pure allungate. Due centimetri, dicono gli esperti. Ma col tempo aumenteranno. Non c’erano mai state tante interazioni prima della nascita del Web. Tutti, in qualche modo, sono diventati protagonisti di qualcosa, e lo dichiarano, lo mettono in mostra, lo propongono agli altri. La nostra è un’identità digitale e come tale viene vissuta dalle persone che ci circondano. Anche attraverso il selfie. Non c’è niente di male. Ma la costruzione della propria identità passa anche attraverso altre esperienze.
NELL’IMMAGINE: Riflessi, Oskar Zwintscher, 1901