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Ci sono parole ricorrenti in questo momento particolare della nostra vita. Termini che ricordano battaglie all’ultimo sangue, conflitti, scontri. Il clima bellico pervade le nostre giornate, alle prese col tentativo di evitare contagi, tra consigli, non pochi, dei virologi, oracoli dei nostri tempi, e la speranza di poter fare al più presto il vaccino per combattere e sconfiggere il Covid. Combattere, ecco. E sconfiggere. L’elenco dei vocaboli che ci riportano a immagini di guerra è lungo: guerra al virus, lotta al Covid 19, scontro sui vaccini e via dicendo.

Uno di quelli che mi hanno colpito (colpire, in guerra, è frequente) di più è coprifuoco. Non si era mai verificato dal dopoguerra in poi. Un provvedimento forte, potente, sconvolgente, che vieta a chiunque, se non per motivi urgenti, di uscire di casa dalle 22 in poi. Era successo con la caduta di Mussolini, quando il primo governo Badoglio impose il coprifuoco dalle 21 alle 5 in tutto il paese. Era stato adottato in Francia nel 1961, in piena guerra d’Algeria, nei confronti di musulmani algerini, per evitare attentati. Sempre in Francia, nel 2005, dopo la morte di due giovani che erano fuggiti ad un controllo della Police Nationale, fu vietato di uscire di casa da soli ai minori di 17 anni dalle 2 alle 6 del mattino.

Coprifuoco significa ‘coprire il fuoco’, cioè spegnere ogni fiamma durante le ore notturne. Nel Medioevo serviva per evitare incendi. Durante la guerra per non consentire l’identificazione di un centro abitato durante un bombardamento. La guerra, ci risiamo. Siamo tutti mobilitati contro il nemico invisibile, e indossiamo l’elmetto per combattere e proteggerci. Il linguaggio militare predomina, e le metafore si sprecano. Siamo invasi dai virus, quello originario e quelli mutati: inglese, spagnolo, brasiliano. La mappa dei conflitti si allarga. L’atlante delle guerre si colora di rosso, arancione e giallo.

C’è un altro termine ricorrente: resistenza. Questo, nemmeno a dirlo, piace di più. Intanto per il riferimento immediato alla resistenza partigiana e alla metafora, l’ennesima, della liberazione italiana. Dunque, rispetto ai precedenti vocaboli militari, resistenza è una parola che evoca speranza. La speranza è che ci si possa liberare al più presto dal morbo, dal mostro, dal nemico invisibile. E per farlo dobbiamo resistere, appunto. Siamo nati per affrontare le difficoltà. Le nostre precedenti generazioni hanno dovuto superare carestie, catastrofi, guerre ed epidemie. Ora tocca a noi. Che pure non ci siamo fatti mancare nulla, diciamolo. Il colera a Napoli, gli anni bui del terrorismo, i vari terremoti che sovente interessano la penisola, le alluvioni. Spingendoci oltre, le immagini dell’attacco alle Torri Gemelle non le cancelleremo mai. Eppure abbiamo resistito, nonostante le avversità. Abbiamo fronteggiato gli eventi negativi, come stiamo facendo ora, tra enormi difficoltà sanitarie ed economiche. Sviluppiamo gli anticorpi a prescindere da ogni vaccino, perché siamo stati progettati proprio per resistere.

Siamo gli eroi della resilienza. E’ l’ultimo vocabolo di questa riflessione, giuro. Resilienza, cioè la capacità di fronteggiare ogni tipo di ostacolo e di riorganizzare la propria esistenza. Ricostruire e ricostruirsi, mettendocela tutta. Dobbiamo essere bravi a trovare quello che c’è di positivo anche negli eventi negativi. Lo ammetto: pandemia e lockdown ci fanno spazientire e provocano disagi. Ma abbiamo anche riscoperto vecchi piaceri dimenticati: la lettura in primo luogo. Poi una serie di lavori manuali, come ridipingere una parete o aggiustare la gamba del tavolino che si era già rotta da tempo. O preparare l’impasto per il pane e la pizza. Alla fine, è anche con la resilienza che si vincono le battaglie.

IMMAGINE DI COPERTINA: Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio. Renato Guttuso, 1951– 1952. Galleria degli Uffizi, Firenze

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