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Prima il loro impegno per la costruzione del mondo digitale in cui stiamo vivendo, poi il rimorso per il risultato del lavoro svolto sino ad oggi. Li chiamano i pentiti del Web, quelli che nella Silicon Valley si sono dati da fare per promuovere lo sviluppo tecnologico legato ai social network, Facebook in primo luogo. Avevano cominciato a prendere le distanze ben prima dello scandalo di Cambridge Analytica. L’ex presidente del social network fondato da Zuckeberg si chiama Sean Parker. Nel 1999 aveva creato Napster, il servizio per lo scambio di musica tra utenti privati che provocò un vero e proprio terremoto in tutto il settore, dando il via alla rivoluzione della musica digitale. Realizzò anche altri siti come Plaxo e Causes prima di approdare a Spotify, la piattaforma che offre lo streaming on demand di una selezione di brani di vari artisti legati a etichette discografiche che aderiscono all’iniziativa. Parker, oggi miliardario, si dichiara ‘obiettore di coscienza’ e rinnega la sua stessa creatura: “Facebook e gli altri – dice – hanno costruito il loro successo sullo sfruttamento della vulnerabilità della psicologia umana. Dio solo sa cosa stanno facendo al cervello dei nostri figli”. Quel cosmo costruito intorno ai mi piace non va più giù a Parker. Spiega che la struttura messa in piedi cambia letteralmente la relazione di un individuo con la società e con gli altri, intervenendo in modo negativo sulla produttività. Parole che pesano. Ancora di più perché pronunciate da chi ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita e nello sviluppo del social network più famoso e utilizzato da giovani e meno giovani. “Quando è stato lanciato Facebook – racconta – le persone venivano da me e mi dicevano che non erano tipi da social media. Io rispondevo che lo sarebbero diventati, nonostante le resistenze. Nonostante tutti dicessero di preferire le interazioni reali e di dare valore alla riservatezza. Alla fine vi prenderemo tutti, replicavo. Ed è stato così. I social come Facebook, Twitter, Instagram e altri ci hanno presi tutti. E continuano a fagocitare sempre più il nostro tempo”. Per Sean Parker, e non è il solo, come vedremo più avanti, un network che raggiunge due miliardi di persone cambia letteralmente il rapporto degli individui con la società e con gli altri. Ma, quando il social è stato creato, i suoi inventori erano coscienti che per consumare l’attenzione e il tempo delle persone occorreva ogni tanto una botta di dopamina. Quando qualcuno commentava o gradiva un post o la foto di un utente, questi a sua volta era portato a pubblicare un altro post che generava altri commenti e altri like. In pratica un loop di riscontro che convalida le cose che si cercano sfruttando la psicologia umana. Insomma, si stava dando vita a un meccanismo capace di creare dipendenza, come una droga. Zuckerberg e gli altri – confessa Parker – ne erano consapevoli ma lo hanno fatto lo stesso.

Anche Evan Clark Williams, tra i fondatori diTwitter, oggi ammette qualche colpa: “Internet si è rotto, si è incamminato su un percorso buio e le cose andranno sempre peggio. Quando pensavo che il mondo sarebbe cambiato se ognuno fosse stato libero di comunicare e di esprimersi liberamente attraverso informazioni e idee mi sbagliavo”. In effetti lo stesso Williams, come Steve Jobs, non lasciava usare l’Ipad ai suoi figli. Lo stesso faceva Chris Anderson, già direttore di Wired, imponendo ai suoi ragazzi di utilizzare i dispositivi presenti in casa il meno possibile. E che dire di Jonathan Paul Ive, capo designer dei prodotti Apple, che denunciò l’uso improprio dell’iPhone, ammettendo che restare sempre connessi era un errore. Proprio lui consigliò di usare meno il telefonino e di esercitare un minimo di autocontrollo per cercare di trovare il giusto equilibrio.

Un altro signore noto, Jerry Kaplan, informatico americano con la testa rivolta verso il futuro, pioniere nel settore dei tablet, ha rivelato senza troppi indugi di odiare i social media e di considerarli una distrazione. Kaplan è anche l’autore di un volume dal titolo Intelligenza artificiale. Guida al futuro prossimo, nel quale lancia un allarme sull’utilizzo delle macchine superintelligenti nei prossimi anni. L’intelligenza artificiale, per Kaplan, avrà sulle nostre vite un impatto pari a quello della rivoluzione industriale o della nascita del Web. Si riuscirà a produrre ricchezza e crescita, ma il rischio è quello di estromettere proprio gli esseri umani dal mercato del lavoro. Ad essere coinvolto non sarà solo il settore dell’economia. Gli scenari anticipati da Kaplan riguardano anche il rapporto tra le persone, sempre più lontane tra di loro e sempre più dipendenti da macchine capaci di fornire assistenza e di provare addirittura emozioni.

L’elenco dei pentiti è lungo. Roger McNamee è certamente un personaggio estroso, oltre a essere un uomo d’affari e un affermato musicista. Ha avuto a che fare con Bill Gates, che teneva conto dei suoi commenti rispetto alle riflessioni pubblicate su libri come La strada che porta al domani , e con Mark Zuckerberg. McNamee fu uno dei primi investitori di Facebook, diventando in seguito uno dei primi critici nei confronti del social network. Oggi rivela: “Ho investito e guadagnato molto con Google e Facebook nei primi anni, ma ora mi rendo conto che, come nel caso del gioco d’azzardo, della nicotina, dell’alcol e dell’eroina, Facebook e Google producono felicità di breve periodo con pesanti conseguenze nel lungo termine. Gli utenti non si rendono conto dei segnali di dipendenza fino a quando non è troppo tardi. La giornata ha solo 24 ore e queste compagnie sono in competizione tra di loro per conquistare il numero più alto di pubblico. McNamee se la prende pure con Netflix: “Il suo principale concorrente non è Amazon, come afferma lo stesso capo del servizio di streaming, ma il sonno dei suoi spettatori”.

Antonio Garcia Martinez, che conosce bene Facebook, avendo in passato contribuito a trasformare in danaro i dati del social, recita il mea culpa: “Ho partecipato alla creazione di una tecnologia in grado di individuare i gusti degli utenti. Se una persona fa un acquisto sul Web o una ricerca online, Facebook pubblica un’inserzione personalizzata sul suo profilo. Oramai è un mezzo potente, che conosce tutto dei propri iscritti, approfittando in particolare di quelli più tristi, stressati, insicuri”. Ritiene che i dati raccolti da Cambridge Analytica difficilmente abbiano potuto influire sul risultato delle elezioni americane. Considera anche inutile l’idea di cancellarsi da Facebook. Del resto, ammette, per evitare qualsiasi rischio occorrerebbe buttare via tutti i telefonini e non accendere più nemmeno un computer. Tuttavia nel libro Chaos Monkeys, se la prende con il capitalismo imperante della Silicon Valley partendo dalle sue esperienze personali. Le startup, dice, sono esperimenti di business condotti con i soldi degli altri, mentre il capitalismo è una farsa amorale in cui ogni giocatore, investitore, impiegato, imprenditore o consumatore è complice. Dietro l’utopia tech si nascondono invidie, menzogne, tradimenti. C’è poca differenza tra l’avidità del capitalismo e il regime totalitario comunista. Il mito della società tecnologica è un bluff fatto di sotterfugi dove si investono soldi senza fornire prodotti e senza avere clienti. Meglio gli hacker, confessa a un certo punto Martinez, che Bill Gates, definito un privilegiato figlio dell’aristocrazia tech di Seattle. Non viene risparmiato nessuno, né il creatore di Windows, che avrebbe ottenuto la sua prima commessa con Ibm grazie alla madre, che all’epoca collaborava con il Ceo dell’azienda, né Steve Jobs, che quando lavorava come tecnico ad Atari avrebbe truffato uno dei suoi migliori amici per qualche migliaio di dollari di bonus aziendale. I colleghi, invece, vengono descritti come sociopatici con la felpa. Anche se, riconosce, lavorano 14 ore al giorno. Antonio Garcia Martinez immagina uno scimpanzé che imperversa attraverso un datacenter alimentando qualsiasi cosa, da Google a Facebook. Nella metafora che paragona la Silicon Valley a una scimmia, gli ingegneri della struttura utilizzano un software per testare la robustezza dei servizi online e la loro capacità di sopravvivere a quello che si rivela un fallimento generale. Ma ad essere messi sotto accusa sono soprattutto gli imprenditori, sono loro le vere scimmie del caos della società che tengono sotto controllo, trasformando ogni aspetto della nostra vita. Nella Silicon Valley, scrive l’ex consigliere di Twitter, che ha al suo attivo collaborazioni con Facebook e Goldman Sachs, non esiste nessuna deontologia professionale, i comportamenti sono di tipo mafioso, molti dirigenti sembrano gangster e non riescono a capire la differenza tra cosa è giusto e cosa è sbagliato. L’unica missione, per tutti, è fare soldi. A tutti i costi.

Steve Wozniak, cofondatore di Apple con Steve Jobs, afferma che è giunto il momento di cancellare Facebook. Mentre Elon Musk, fondatore di Tesla e Space X, è passato dalle parole ai fatti togliendo dal social le pagine delle sue società. Sempre contro Facebook e contro la tecnologia in generale punta il dito l’ex presidente del social network Chamath Palihapitiya: “Abbiamo creato un sistema di feedback alimentato dalla dopamina che distrugge il funzionamento della società. Niente più discorso civico, niente cooperazione. Solo stravolgimento della realtà”. Palihapitiya non usa mezzi termini: “L’unica soluzione è staccare la spina o quantomeno cercare di utilizzare i social il meno possibile”. E i bambini? Nessun dubbio, chiusura totale nei confronti di quella che considera una vera e propria “shit”. Greg Hochmuth, ingegnere e artista, specializzato nello studio dei dati, già product manager con Google, dove lavorò per la personalizzazione degli annunci, contribuì alla creazione di Instagram con entusiasmo: “Ero contento di aiutare molte persone a condividere le loro esperienze con la stessa gioia con cui scattavo le foto sul mio iPhone. Poi mi sono reso conto che c’è sempre un altro hashtag su cui cliccare. A un certo punto il sistema assume vita propria, come se fosse un organismo, e diventa un’ossessione per le persone”.

Di hackeraggio del cervello parla Tristan Harris, per tre anni design ethicist di Google. Continua ad occuparsi dell’etica dei prodotti, in particolare della responsabilità morale delle aziende tecnologiche, ma lo fa con una società no-profit, visto che con Google non è stato possibile. La sua intervista più popolare è quella realizzata da Sam Harris, filosofo e neuroscienziato statunitense, disponibile online in podcast 17 , dal titolo Che cosa ci sta facendo la tecnologia?. Secondo lo studioso la tecnologia sta rubando le nostre menti sfruttando la vulnerabilità psicologica delle persone. Per rendere comprensibile il suo ragionamento, Harris utilizza la metafora del mago che influenza le persone senza che loro se ne rendano conto. Una volta che il mago conosce i punti deboli del suo pubblico è pronto a spingere i loro pulsanti come si fa con i tasti di un pianoforte. È quello che fanno i progettisti, i programmatori, i giganti del Web. “La cultura occidentale – afferma – è costruita attorno a ideali che si fondano sulla libertà. Milioni di persone difendono con decisione il diritto di fare scelte libere, mentre ignorano come quelle scelte siano manipolate a monte”. Harris immagina di essere fuori con gli amici il martedì sera e di voler trascorrere qualche ora insieme in un posto gradevole dove poter conversare e bere qualcosa. Consultando il proprio smartphone ci si trova davanti a una serie di proposte, un menù che consiglia un bar dove andare e cosa scegliere. Ma il menù ignora il parco che si trova di fonte al bar selezionato, dove c’è una band che suona musica dal vivo. Manca pure la galleria d’arte che si trova sempre nelle vicinanze, dove vengono servite crepes e caffè. Non c’è niente di tutto ciò, solo le proposte del telefonino che, con i suoi suggerimenti, diventa un mezzo potentissimo. Tra le metafore utilizzate da Harris c’è quella della slot machine. Una persona consulta il proprio telefonino 150 volte al giorno. Perché lo fa? Si tratta di 150 scelte consapevoli? A questo punto Harris rivela un ingrediente psicologico fondamentale nel gioco delle slot machine. Si chiama premio variabile intermittente. I progettisti delle macchine collegano l’azione di un giocatore con una ricompensa attraente, come ad esempio un premio in danaro. O, al contrario, nulla. La dipendenza è più forte quando il tasso di ricompensa ha più variabili. La stessa cosa succede con i telefonini. Miliardi di persone hanno in tasca una slot machine, e ogni volta che un telefono viene utilizzato è come tirare la leva della macchina e giocare una partita. Quando viene aggiornata la posta elettronica è come giocare alle slot machine per vedere quali notifiche abbiamo. Così come quando si apre Facebook per vedere quanti mi piace ha ottenuto il post pubblicato un’ora prima. O quando con il dito si scorre il feed di Instagram per vedere quale foto appare subito dopo. Le app e i siti sul Web generano premi variabili intermittenti. Ma c’è un’altra modalità con cui app e siti influenzano le persone. È quella di introdurre un 1 per cento di possibilità di perdere qualcosa d’importante. Se siamo convinti che un sito o un profilo su Facebook sia fondamentale per apprendere un’informazione, sarà difficile non consultarlo o cancellare quel profilo o addirittura rimuovere il proprio account. Potrebbe venire a mancare, appunto, una notizia significativa. Sollecitare la nostra curiosità è uno degli esercizi preferiti dai social. Di cosa parlano i nostri amici su Facebook o quali foto postano su Instagram? Non è possibile vivere con la paura di perdere qualcosa. Un’altra teoria utilizzata spesso è quella dell’approvazione sociale. Riguarda cioè la necessità di ottenere un consenso, di essere apprezzati dagli altri. Quando la società a cui apparteniamo è soddisfatta dei nostri comportamenti vuol dire che valiamo, che siamo importanti, forse anche indispensabili. Il problema è che le aziende tecnologiche si servono di questa teoria per coinvolgerci sempre di più. Quando un amico ci tagga immaginiamo che si tratti di una scelta consapevole. In realtà Facebook, Instagram, SnapChat e altri possono manipolare la frequenza con cui le persone vengono taggate nelle foto, suggerendo automaticamente tutti i volti che le persone dovrebbero taggare. Per Tristan Harris, etichettato come “la cosa più vicina che la Silicon Valley ha per coscienza”, Facebook, con due miliardi di iscritti che la frequentano anche cento volte al giorno, ha più seguaci del cristianesimo ed è grande una volta e mezzo l’islam. È dunque più influente di qualsiasi religione, e per questo motivo sta diventando un problema esistenziale. Harris ne è consapevole e ha creato una fondazione, Time Well Spent, per sensibilizzare le persone a ritrovare tempo e qualità, liberandosi dalle maglie strette di cellulari, tablet e pc. La sua missione, dice Harris, è “una crociata di civiltà”.

Justin Rosenstein è l’uomo che ha inventato il like, il mi piace. Nelle sue intenzioni c’era la voglia di regalare un po’ di ottimismo. Ma col passare del tempo lo stesso Rosenstein si è reso conto che quella invenzione ha i suoi lati negativi. Al punto di imporsi limiti di tempo rigorosi sull’uso di Facebook e di altri social. L’ingegnere teme gli effetti negativi dei social sulle persone e ha chiesto al suo assistente di creare sull’iPhone una funzione che gli impedisca di scaricare qualsiasi applicazione. In lui cresce la preoccupazione che, oltre a coinvolgere gli utenti, la tecnologia stia contribuendo alla cosiddetta attenzione parziale continua, limitando gravementela capacità delle persone di concentrarsi e abbassando il quoziente d’intelligenza.

Anche Leah Pearlman faceva parte del team che ha creato il mi piace per Facebook. Oggi dirige una casa editrice di fumetti e ha come obiettivo quello di riscoprire i valori veri della vita. Ammette che “contare i like per valutare quanto si vale è una fuorviante illusione”. Nir Eyal ha dedicato diversi anni della sua attività al servizio dell’industria tecnologica. E conoscetutti i meccanismi utilizzati dai giganti della Silicon Valley, i trucchi psicologici, alcuni citati da Tristan Harris, che possono essere usati per far sì che le persone sviluppino abitudini. “Le tecnologie che utilizziamo si sono trasformate in compulsioni, se non in dipendenze a pieno titolo”, dice Eyal. “La tecnologia sta prendendo il sopravvento sulle nostre vite. E le responsabilità delle aziende sono enormi”. Eyal ha installato nella sua casa un timer di presa collegato a un router che interrompe l’accesso a Internet ad un orario prestabilito ogni giorno. “L’idea è di ricordare che non siamo impotenti”, ha detto.

“Abbiamo il controllo”. Il lungo elenco di critiche ha costretto Facebook e i suoi dirigenti ad ammettere che l’uso del social può essere negativo per la salute mentale degli utenti. Consumare passivamente il proprio tempo è un pericolo ma, affermano David Ginsberg, capo della ricerca del gruppo, e Moira Burke, ricercatrice, una soluzione può essere quella di coinvolgere maggiormente le persone sulla piattaforma e metterle nelle condizioni di poter interagire nel modo migliore con vecchi amici, chattare in piccoli gruppi o scambiare contenuti direttamente con altri utenti per migliorare il proprio benessere e la propria esperienza sul social network. Una soluzione che, per la verità, non convince.

One thought on “I PENTITI DEL WEB

  1. Ogni suo articolo lo leggo tutto di un fiato perché Lei è una bella penna Chiara semplice efficace e pregna di significati.grazie sempre per i suoi scritti…

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