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Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Francesco Piccolo, Momenti trascurabili. Un volumetto come sempre nello stile dell’autore, godibile, piacevole, scorrevole. Gli aggettivi si sprecano per un personaggio che ha al suo attivo numerosi scritti, tra cui un Premio Strega, ed è sceneggiatore di successo. Ha firmato vari film di Paolo Virzì, Nanni Moretti, Marco Bellocchio, e ultimo della serie L’amica geniale, tratto dai romanzi di Elena Ferrante.

Insomma, una bella biografia quella di Piccolo che, per giunta, è pure delle mie parti. E questo per me è sempre motivo d’orgoglio. Quando un personaggio mi colpisce in qualche modo vado sempre a vedere quali sono le sue origini. E’ un valore aggiunto, è una specie di patentino che mi consente di mettere tutti i personaggi preferiti in due cataloghi: da una parte quelli irpini o che sono nati più o meno nelle zone non lontane dalla mia provincia; dall’altra quelli che mi piacciono ma che sono nati, che so, in Liguria o in Veneto. Non è bello, lo ammetto. Faccio il tifo per alcuni più che per altri, certo. E’ campanilismo puro, antropologicamente sfacciato. 

Momenti trascurabili è un libretto che si legge al massimo in due barra tre ore. Dico barra perché in una delle frasi di Piccolo si parla, appunto di questo termine. Lui dice che ci sono quelli che dicono barra. Due barra tre persone. Cinque barra sei giorni. Il suo libro, quindi, si legge in due barra tre ore. Stavolta però ho finito di leggerlo in due barra tre mesi, non ricordo bene quando l’ho aperto la prima volta. Sicuramente dopo maggio 2020, perché la data di uscita è quella. Dopo il lockdown. E forse proprio per questo non riuscivo a digerire subito i momenti trascurabili. Perchè di trascurabile, in quel momento, c’era poco. Che poi non c’entra nulla, lo so, ma ritenevo che ogni momento fosse troppo importante dopo quello che stava succedendo.

Piccolo aveva già scritto Momenti di trascurabile felicità e Momenti di trascurabile infelicità. Ne hanno fatto pure fatto un film. Per me felicità e infelicità ruotano vertiginosamente in questo periodo, così pieno di incognite per il nostro futuro. E la prospettiva di discutere di presente e di futuro è così difficile che anche aprire il volumetto di uno dei miei autori preferiti diventa un’impresa. E pensare a chi mi darà indietro tutto il tempo perduto a districare i fili degli auricolari è un quesito che non mi appassiona. Anche se fa ridere. Perchè molte delle frasi scritte nel libretto fanno proprio ridere. Come quelle sulle cose che non si riescono a fare più man mano che passano gli anni e la pigrizia cresce. E quando dall’aereo scorgo l’edificio blu con la scritta gialla Ikea non mi sento affatto sicuro. E so che anche tra gli scaffali pieni di mobili si potrebbero nascondere insidie. E di pensare al prossimo Capodanno non mi va per niente. Perché alla fine del 2020 sarà troppo facile dire: è stato un anno di merda.

Ho scoperto Piccolo con un altro libretto. Si intitolava L’Italia spensierata. Un pamphlet sui luoghi e i riti del divertimento italiano. Credo di non aver mai fatto tante risate come quelle scatenate dalla lettura del volume che in qualche modo descriveva la felicità del pubblico che partecipava ai programmi televisivi, di quelli che non vedevano l’ora di andare al cinema per la proiezione dei cinepanettoni o di quelli al luna park, in fila anche mezza giornata pur di farsi buttare giù da una torre altissima quasi a schiantarsi al suolo. Ma soprattutto ricordo l’esilarante capitolo dedicato a uno dei luoghi più frequentati dagli italiani, soprattutto quando ci sono le vacanze: l’autogrill. Gli autogrill, si, per tutti noi delle vere case, tra Twix, Mars, Lion, Kit Kat, Kinder Cereali, Duplo, Bucaneve e Pavesini, Ore Liete e Mikado, Gocciole, merendine del Mulino Bianco e ghiottonerie varie. E poi lui, il Toblerone, il vero simbolo degli autogrill.

Decido di fare un esperimento. Riprendo tra le mani L’Italia spensierata. Calcolo che ci vorranno tre barra quattro ore per leggerlo. Se lo farò in tre barra quattro mesi poi ve lo comunicherò.

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