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Il termine post è entrato già da tempo in maniera preponderante nelle nostre vite. Per lo più indica la posteriorità nel tempo, nel senso di “poi, più tardi, dopo, ecc.”. Oggi lo utilizziamo soprattutto riferendoci a un messaggio, una pubblicazione su un blog o su un social, o come commento a un articolo e comunque come intervento in una discussione sul web. E in effetti l’etimologia della parola deriva dall’inglese “to post”, ovvero spedire, inviare. Quindi, nel caso di internet, si invia il messaggio alla pagina scelta per la sua pubblicazione.

Ma il termine post è molto di più. E’ qualcosa che avvolge e che misura l’esperienza dell’uomo, lo cataloga, lo posiziona tra questo e quel periodo, interpretando le sue esperienze, i suoi cambiamenti, il suo rapporto con l’ambiente che lo circonda e che si modifica insieme a lui. L’uomo postmoderno, ad esempio, è colui che si lascia alle spalle la concezione di un mondo fatto di ideali, dove prevalgono il dominio sulla natura e la scienza. La storia non viene più intesa come un processo necessario per garantire l’emancipazione e il progresso perché il mondo non è uno, ma tanti mondi. E la società, come se non bastasse, è assai complessa per potersi limitare a un unico credo, cioè a una sola verità.

Forse sarà stato proprio questo a spingere i fautori del postmodernismo a esaltare le caratteristiche e le proprietà delle tecnologie informatiche. L’uomo al centro della multimedialità, l’uomo proiettato verso il progresso grazie ai nuovi canali comunicativi, ricettore di messaggi e al tempo stesso emittente del proprio messaggio. Dunque, noi siamo postmoderni, perché siamo continuamente iperconnessi e insistentemente proviamo a dire la nostra su questo o quel social network. Aree di discussione che ci lasciano tanto spazio per poter disquisire su qualsiasi cosa. Discettiamo tanto, altroché. Ne sappiamo sempre una più del diavolo, e conosciamo tutto, e siamo i portatori della verità. Anche se i postmoderni non dovrebbero credere nella verità assoluta. Ma noi siamo postmoderni solo quando ci pare. E’ un postmodernismo da social, ecco. Perché, parafrasando Jean-Francois Lyotard, e Dio mi perdoni per questo, in fondo in fondo non siamo poi tanto reali. Ma non si tratta di rivalutare il sublime. Nelle argomentazioni che ci tocca leggere sui social rispetto al tema trattato, di sublime c’è ben poco. E noi non siamo reali, dicevo, perché sui social ci trasformiamo e presentiamo solo una parte di quello che siamo, o meglio rendiamo pubblica una parte contraffatta di noi, non vera, mascherata.

Forse sono troppo severo, si, troppo. Mi capita anche di leggere delle cose decenti, dei ragionamenti dettati dal buonsenso. Ma le occasioni sono pochissime. E a questo punto non posso evitare di tirar fuori l’aforisma di Umberto Eco, secondi cui i social danno diritto di parola a legioni di imbecilli. Lui si riferiva a Twitter, e a quelli che prima parlavano solo al bar dopo due o tre bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società. Oggi se ti fai un quartino puoi anche metterti su Facebook e postare quello che vuoi. Ma non è questo il problema. Nel senso che al bar l’imbecille, e sono sempre parole di Eco, veniva messo a tacere dagli astanti. Sul web non accade. E così superato un certo limite si crea quella sindrome di scetticismo che porta la gente a non credere più a ogni cosa che si dice. Eco fu abbastanza preciso nella sua analisi, anche se l’aforisma, col tempo, è stato male interpretato. E la capacità critica del popolo di internet è pure venuta meno. Oggi si fa fatica a distinguere una bufala, una fake news, da una notizia vera. Segno che qualcosa è venuto a mancare in questi anni di sviluppo digitale. Siamo postmoderni ma abbiamo ancora molto da imparare.

Ci sono post e post. A proposito di social c’è un esempio calzante che è quello della post-verità. Per i postmoderni è la condizione secondo cui in una discussione la verità non è la cosa più importante per un individuo che vive in un mondo di mezze verità. Poi c’è la post-verità che si basa sull’emotività della gente, che parla alla pancia del pubblico pensante che viene distratto e che non pensa più, facendo i conti con la propria esistenza e con i propri problemi. La post-verità è molto utilizzata da una certa categoria di politici. Che guarda caso sfrutta molto i social network. Oggi lo fanno tutti, per carità. Ma qualcuno di più. Insomma, gli effetti della post-verità possono essere devastanti. E non ci si può fidare.

E che dire del postumanesimo? Ci stiamo davvero trasformando in esseri ibridi, metà umani e metà non umani? Forse si. Perché in fondo noi siamo tecnologia. Ogni scoperta tecnologica è stata fortemente voluta da noi. E’ come se già sapessimo dove andare a parare quando ci accingiamo a mettere le mani su qualche novità digitale. Ad esempio, quando acquistiamo un nuovo smartphone nel giro di poco tempo siamo già in grado di utilizzare tutte le sue funzioni. Lo smartphone diventa un’estensione del nostro corpo e dei nostri sensi. E’ una mediazione tra noi e l’ambiente, è come un braccio. E’ lui che provvede alla nostra sopravvivenza. Cosicché noi siamo metà umani e metà no. Perché lo smartphone non è umano ma lo diventa con noi, e noi con lui viviamo questa epoca di postumanesimo.

Post Scriptum: volevo scrivere un post che parlasse di post. Alla fine è venuta fuori questa disquisizione degna di un post su Facebook. Perché noi siamo metà umani e metà no.

 

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